Regolarizzazione immigrati: necessità ed opportunità dello strumento normativo – L’avv. Vanacore per Diritto24

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Di seguito l’articolo a firma della nostra senior associate Avv. Maria Teresa Vanacore, pubblicato da Diritto24, sul tema della regolarizzazione degli immigrati tornato alla ribalta in fase di emergenza Covid. Al vaglio del Governo una possibile regolarizzazione.

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La situazione emergenziale covid-19 porta nuovamente l’attenzione sugli annosi ed accesi dibattiti politici riguardo alla necessità di riproporre una sanatoria delle posizioni irregolari di lavoro legate a cittadini stranieri che, seppur presenti sul territorio nazionale e nel mercato del lavoro sommerso, siano sprovvisti di permesso di soggiorno e dunque invisibili per lo stato di diritto nel quale vivono in assenza del controllo sulla legittimità del loro status; dunque, al via nuovamente il dibattito sull’opportunità di riconoscerne diritti ed obblighi civili.

L’attuale governo vaglia una possibile “regolarizzazione” di stranieri nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento, della pesca e dell’acquacoltura, per sopperire all’impossibilità di usufruire dei flussi di lavoratori stagionali dall’estero. Le polemiche relative all’opportunità ed al contenuto di una sanatoria seppur funzionale, così come ipotizzata, alle esigenze del nostro settore agricolo, riguardano da un lato il suo contrasto col principio di preferenza nazionale nella scelta dei lavoratori disponibili ad essere assunti e, dall’altro, l’inadeguatezza di una regolarizzazione “settoriale” quale strumento di contenimento dell’emergenza sanitaria.

Riguardo al primo punto, sin dal primo esperimento di sanatoria avvenuto nel 1963 con circolare n. 51 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali risultava evidente che il tema nazionalista nella preferenza delle assunzioni mediante previa verifica delle liste di collocamento presso i centri per l’impiego territoriali avrebbe permeato, a fasi alterne come le maggioranze di governo susseguitesi, le successive iniziative di regolamentazione del fenomeno migratorio sino alla legge Bossi-Fini del 2002.

Seppure è vero che una collettività ha il diritto di tutelare le proprie particolarità e che ciò giustifica esigenze di controllo dei flussi migratori, è anche vero che il subordinare incondizionatamente l’assunzione di manodopera immigrata alla piena occupazione dei cittadini porterebbe un’assoluta assenza di stabilità del lavoratore in quanto l’assunzione dello straniero verrebbe in ogni momento a dipendere dalla situazione del mercato del lavoro dei cittadini e viceversa, con un effetto distorsivo dei principi che informano la normativa internazionale umanitaria, nonché delle potenzialità e tutele sociali del libero mercato del lavoro. Inoltre, subordinare l’assunzione della manodopera straniera irregolare già presente nel paese alla disponibilità di cittadini italiani nei medesimi settori, non farebbe altro che alimentare il mercato nero del caporalato che continuerebbe a sopravvivere indisturbato, ledendo quotidianamente quel supremo valore di dignità umana che si realizza soprattutto attraverso il lavoro.

Di fatto, questa parte di polemica istituzionale non si traduce ancora in una dialettica tesa al cambiamento, bensì continua ad arenarsi nel fallimento delle nostre politiche migratorie interne relative ad i flussi annuali di lavoratori stranieri che, nelle qualifiche di lavoro e nei relativi numeri ammessi, non rispecchia ormai da anni la realtà economica di richiesta e fabbisogno d’ingresso, in gran parte ormai tradottasi in presenze irregolari pluriennali sul nostro territorio.

Il restringimento delle possibilità di entrata legale per i migranti economici la cui pressione migratoria non è diminuita, è opera di previsioni incongruenti del decreto flussi e delle relative normative di attuazione.

Prevedere quasi esclusivamente conversioni dei permessi per non comunitari già presenti in Italia, stagionali in determinati settori circoscritti ed in numero esiguo rispetto alle esigenze del mercato lavorativo reale, peraltro già ampliamente occupato da irregolari, porta all’incremento di lavoro sommerso anche in altri ambiti di attività, dove gli ingressi sono veicolati per lo più da visti di breve durata non abilitanti a posizioni lavorative.

E’ questo il caso di modelli ed indossatori professionali, colf e badanti. Riguardo a quest’ultima categoria, stime non ufficiali parlano di 200.000 non comunitari impiegati nel comparto domestico senza regolare titolo di soggiorno, e quindi anche in nero, già presenti in Italia ed impossibilitati all’assunzione, anche se ciò sia nella volontà dei datori di lavoro.

Per quanto riguarda le quote di autonomi, le stesse di fatto non permettono libero accesso dell’imprenditoria estera, che paradossalmente può costituire in Italia società di capitali in ossequio al principio di reciprocità stabilito in convenzioni bilaterali con gli stati esteri di appartenenza, ma non può immediatamente trasferirsi al fine di esercitare lavoro nel nostro paese pur ricoprendo determinate cariche nelle proprie società.

Detti imprenditori, saranno abilitati all’ingresso esclusivamente in società costituite ed operanti da almeno tre anni. Nessuna previsione nel decreto flussi per gli imprenditori individuali che maggiormente rappresentano i flussi di stranieri legati ad attività economiche in proprio.

La chiusura agli ingressi per lavoro si manifesta anche nei confronti di liberi professionisti in professioni regolamentate o rappresentate a livello nazionale da associazioni di categoria, per i quali spesso non sono chiari i presupposti per l’ingresso e le competenze delle divisioni ministeriali adibite al rilascio delle opportune autorizzazioni al soggiorno per lavoro professionale, anche in mancanza di contratti di lavoro in Italia per lo svolgimento della libera professione, seppur rispettando parametri finanziari che dovrebbero essere attestati dagli ordini di categoria o dalle amministrazioni competenti (che brancolano spesso nel buio di fronte a simili richieste).

Se a questo aggiungiamo le annose difficoltà nel riconoscimento dei titoli e delle competenze professionali acquisiti all’estero, risulta evidente l’enorme difficoltà dell’inserimento nel mercato del lavoro professionale estremamente rigido e frazionato italiano, per cui spesso soggetti stranieri qualificati, finiscono per essere incanalati in lavori precari, spesso definibili pesanti e pericolosi, e con minori garanzie sociali.

Tutto questo spinge ogni anno questa moltitudine di migranti economici a mescolarsi ai migranti forzati, rendendo “misti” i relativi flussi. Essi permangono sul territorio ma vengono esclusi dalla possibilità di risiedere regolarmente in Italia poiché non aventi diritto all’asilo e spesso confluiscono nelle file del caporalato. In tal modo, il governo continua indirettamente a favorire lo sfruttamento di risorse umane irregolari che colmano attualmente le lacune del decreto flussi (pensiamo ai soli stagionali che, da ultima decretazione flussi 2019, venivano ammessi in una quota di 18.000, a fronte di un bisogno attuale di circa 200.000 lavoratori così come dichiarato dalla CIA agricoltori italiani, numero non coperto dal mercato nazionale di risorse disponibili).

Se il principio comunitario di parità di trattamento per l’accesso al lavoro dei cittadini stranieri non venisse sistematicamente ignorato ma perseguito come spinta alla crescita di risorse lavorative e contributive essenziali alla nostra economia, una regolarizzazione diffusa e non settoriale, seppure spinta dal tema emergenziale per sopperire alle immediate esigenze nel settore agricolo e dall’esigenza di tracciare una rete di contagi attualmente “invisibili”, rappresenterebbe sia lo strumento necessario a garantire in maniera omogenea le opportune tutele sanitarie, estendendole a tutti gli stranieri attualmente presenti e radicati nel nostro tessuto sociale, sia la base di una revisione profonda del sistema normativo dedicato agli ingressi annuali, improntata al rispetto degli oneri contributivi e ad una fluidità occupazionale regolare, in grado di rispecchiare l’effettività della disponibilità di risorse nazionali e straniere, nonché le mansioni abitualmente svolte da determinate categorie di lavoratori.

Per chiarire l’importanza della decisione che il governo si appresta ad affrontare in risposta all’emergenza contagi ed al lockdown, basti pensare che si stima di avere alla fine del 2020 una conferma di presenze irregolari pari a circa 670.000 unità, con un conseguente incremento della quota di lavoratori in nero.

Questo momento di grave arresto e chiusura per la nostra realtà sociale ed economica, non può non portare finalmente ad una riflessione profonda sulla necessità dell’inclusione finanziaria di stranieri privi di autorizzazione al soggiorno e delle tutele da esso derivanti.

In questo periodo di riprogettazione, non sarà possibile continuare ad ignorare che la partecipazione attiva al sistema economico e l’inclusione finanziaria degli stranieri sono fattori in grado di generare un’incredibile ricchezza ed integrazione economico-sociale a beneficio della nostra sfera produttiva, ma anche di diritti individuali e tutela pubblica.

 

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