Parteciparono a vario titolo alla vendita di numerosi immobili di proprietà dell’Asp Agrigento a Palermo e Roma a un prezzo inferiore ai valori medi dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare e non commisero danno erariale. A deciderlo è stata la sezione giurisdizionale per la Regione siciliana della Corte dei conti decidendo del giudizio promosso dalla procura contro sette dirigenti e funzionari dell’azienda sanitaria provinciale, uno dei quali difeso da LEXIA con un team coordinato dall’avvocato Alessandro Dagnino, managing partner dello studio e composto da Ambrogio Panzarella, partner, Martina Abate e Gerlando Palillo, associate. La contestazione di danno erariale era pari a 813mila euro.
Il fatto
Ottenuta l’autorizzazione dell’Assessorato nel 2011, l’Asp provò per alcuni anni a vendere sei immobili con alcune procedure ad evidenza pubblica andate volta per volta deserte. Nel 2015, fu stabilito così che alla manifestazione di interesse potesse succedere una procedura ristretta con alcuni limiti: la congruità dei prezzi di offerta, la possibilità dell’Asp di non aggiudicare i lotti e con la possibilità per l’acquirente di dare in permuta immobili siti in località di interesse istituzionale di ASP Agrigento.
A questo avviso furono avanzare 11 offerte in totale su sei lotti (uno andò deserto). Tra gli offerenti, un costruttore propose di dare in permuta i locali del distretto sanitario di Casteltermini di sua proprietà e per i quali l’Asp pagava un canone di locazione. Il prezzo complessivamente offerto da Messina per immobili da permutare era pari a 1,75 milioni di euro oltre conguaglio in danaro per euro 101mila euro. Il prezzo globale dell’operazione era quindi pari a 1,85 milioni di euro. Dopo una stima da parte dell’Agenzia delle entrate il valore degli immobili da permutare era stato calcolato di 1,56 milioni di euro, la somma da versare in denaro era salita a 287 mila e euro e inoltre l’Asp aveva ottenuto lavori per 40 mila euro.
Per la Procura della Corte dei conti l’operazione non era però stata vantaggiosa in quanto non congrua rispetto ai valori medi Omi dei singoli immobili (e cioè i valori assunti come indicativi del prezzo dei cespiti dall’Agenzia dell’Entrate).
La decisione
Esaminate le questioni giuridiche e i dati delle vendite, i giudici contabili hanno concluso che nessuno dei soggetti interessati nell’iter di vendita compì danno erariale. Anzitutto spiegano in sentenza i magistrati, non può condividersi l’ipotesi che il prezzo è congruo se pari o superiore al valore degli immobili alienati quantificato secondo i criteri medi Omi “e questo perché una tale previsione non era prevista nel bando di gara. Inoltre, lo stesso bando elevava i “prezzi correnti di libero mercato” a strumento per la valutazione della congruità del prezzo alla stessa stregua dei valori Omi.
Infine, la sentenza chiarisce che questi valori “costituiscono un dato presunto – e non un fatto – estrapolato da uno studio statistico effettuato su una pluralità di atti negoziali registrati e finalizzato ad estrarre un dato numerico di valore medio mediante la rilevazione di prezzi riferibili ad immobili il più possibile omogenei”. Essi non possono quindi “di per sé garantire la perfetta sovrapponibilità con la specifica compravendita” che invece può dipendere da particolari condizioni dell’immobile.
“Il Collegio reputa – così concludono i magistrati Salvatore Chiazzese (presidente), Gioacchino Alessandro (componente e Raimondo Nocerino (relatore) – che l’aggiudicazione sia stata pronunciata dall’amministrazione nel rispetto delle prescrizioni di lex specialis, dei principi di efficacia e di economicità che regolano l’azione amministrativa e del quadro normativo applicabile alla fattispecie”.