Con una recentissima sentenza la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla controversa questione relativa alla qualificazione delle valute virtuali, affermando la necessità di applicare all’offerta di criptovalute (ICO) le norme in materia di intermediazione finanziaria.
La decisione interviene in un momento di forte turbolenza per il mercato delle cripto-attività ed è destinata a generare incertezza regolamentare per i soggetti che offrono servizi relativi alle cripto-attività in Italia, almeno finché non entreranno in vigore le nuove norme del Regolamento MiCA.
Il rischio è che l’equiparazione tra criptovalute e prodotti finanziari, affermata in via generale dalla Cassazione, possa essere acriticamente estesa dalla giurisprudenza a tutte le tipologie di cripto-attività, senza effettuare un’analisi caso per caso delle relative caratteristiche.
Criptovalute e prodotti finanziari
Nell’ordinamento italiano non esiste, allo stato, una disciplina organica del fenomeno delle criptovalute.
In attuazione di quanto previsto dalla V Direttiva Antiriciclaggio, il legislatore ha introdotto una definizione di “valute virtuali”, volta a individuare i soggetti tenuti a iscriversi nell’apposito registro tenuto dall’Organismo Agenti e Mediatori (“OAM”), divenuto operativo da qualche mese.
La normativa antiriciclaggio non si pronuncia, tuttavia, in ordine all’eventuale qualificazione delle criptovalute in termini di prodotti finanziari.
La nozione di prodotto finanziario – che costituisce una peculiarità dell’ordinamento italiano, non riconducibile al quadro normativo europeo – ricorre in tutte le ipotesi in cui vi sia (i) un impiego di capitale, a fronte (ii) di una promessa / aspettativa di rendimento di natura finanziaria e (iii) dell’assunzione di un rischio direttamente connesso e correlato all’impiego di capitale.
L’offerta al pubblico retail di prodotti finanziari è soggetta a obblighi di prospetto, salvo che non ricorrano determinate esenzioni, nonché a particolari vincoli e limitazioni in caso di offerta fuori sede o mediante tecniche di comunicazione a distanza. La violazione di tali obblighi può integrare anche ipotesi di reato, configurando in particolare un abusivismo finanziario sanzionabile ai sensi del Testo Unico della Finanza (“TUF”).
La qualificazione delle criptovalute in termini di prodotto finanziario è pertanto dirimente per comprendere se l’attività di offerta, scambio o negoziazione di valute virtuali o cripto-attività in Italia può ritenersi lecita.
Il caso esaminato dalla Cassazione
Con la sentenza n. 44378 del 22 novembre 2022 la Corte di Cassazione è tornata sul tema relativo alla qualificazione delle criptovalute, facendo seguito ad alcuni precedenti giurisprudenziali richiamati nel prosieguo.
La decisione è stata pronunciata, in sede penale, nell’ambito di un procedimento di impugnazione concernente una richiesta di sequestro preventivo presentata per il reato di autoriciclaggio.
La richiesta di sequestro interessava un wallet contenente valute virtuali raccolte nel contesto di una Initial Coin Offering (“ICO”) lanciata nel 2017 al fine di finanziare la realizzazione di un sistema di gestione decentralizzato di processi di logistica basato sulla blockchain. All’offerente veniva contestato di aver raccolto somme in violazione delle norme in materia di intermediazione finanziaria di cui al TUF.
Caratteristiche dei coin offerti
L’offerta di coin nel contesto della ICO era volta a costruire una piattaforma di logistica multi-servizio supportata da una blockchain basata su DPoS (Delegated Proof of Stake Technology), in grado di decentralizzare le informazioni contenute in sistemi logistici tradizionali.
Il funzionamento del progetto prevedeva il coinvolgimento di soggetti delegati (c.d. delegate), eletti con un sistema di voto democratico dall’intera rete, che avrebbero ricevuto un reward per la creazione di un nuovo blocco.
I reward venivano corrisposti mediante la moneta (coin) emessa in relazione alla piattaforma. Erano inoltre previsti dei meccanismi di bonus a seconda della fase di adesione all’offerta da parte degli investitori.
I diritti di governance ed economici per i possessori dei coin erano descritti all’interno del white paper pubblicato in occasione del lancio della ICO, citato dalla sentenza della Cassazione.
Valute virtuali e normativa antiriciclaggio
In una prima parte della propria decisione la Cassazione svolge delle considerazioni introduttive sulla qualificazione delle valute virtuali, richiamando la normativa in materia antiriciclaggio.
La Cassazione correttamente evidenzia che la definizione di valuta virtuale prevista dall’ordinamento italiano, pur riflettendo la corrispondente nozione prevista dalla normativa europea (V Direttiva Antiriciclaggio), dà specifico rilievo, a differenza della direttiva, al fatto che le valute virtuali possano essere utilizzate anche solo per finalità di investimento e non come mezzo di scambio.
Viene successivamente ricordato il regime applicabile ai prestatori di servizi relativi alle valute virtuali e, in particolare, l’obbligo di iscrizione nel registro tenuto dall’OAM e di ottemperare alle prescrizioni della normativa antiriciclaggio italiana.
Normativa in materia di intermediazione finanziaria
La Cassazione passa quindi ad esaminare la questione relativa all’applicazione delle norme in materia di intermediazione finanziaria, richiamando il proprio precedente del 2020 (sentenza n. 26807 del 17 settembre 2020), in cui era già stato affermato che “ove la vendita di bitcoin avvenga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento”, l’attività in questione è soggetta, tra l’altro, agli obblighi in materia di prospetto, costituendo un’offerta al pubblico di prodotti finanziari.
La Corte argomenta che nel caso in esame l’attività svolta dall’offerente integrava il reato di abusivismo finanziario, che ricorre laddove un soggetto “offr[a] fuori sede, ovvero promuov[a] o colloc[hi] mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento” (art. 166, co. 1, lett. c), TUF). Ciò in quanto “la raccolta di fondi aveva avuto come scopo la creazione di una piattaforma centralizzata di servizi logistici, e a chi aveva contribuito erano stati corrisposti in cambio” dei coin della piattaforma, “che costituivano titoli per l’utilizzo dei servizi” offerti dalla piattaforma stessa.
Qualificazione delle valute virtuali
La sentenza si sofferma dunque sulla qualificazione delle valute virtuali, richiamando una precedente decisione di merito (Tribunale di Verona 24 gennaio 2017) che aveva ricondotto le stesse alla nozione di “strumento finanziario”.
La Corte conferma che anche nel caso di specie ricorrevano tutti i caratteri distintivi dell’investimento di tipo finanziario, in quanto i soggetti che avevano investito nei coin (i) avevano erogato capitali (sotto la forma di bitcoin), (ii) con l’aspettativa di ottenere un rendimento (costituito dalla corresponsione di altre valute virtuali), e (iii) avevano assunto su di sé un rischio connesso al capitale investito.
Ne consegue, ad avviso della Cassazione, che “la valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere disciplinata con le norme in materia di intermediazione finanziaria”.
Cosa cambia rispetto ai precedenti orientamenti?
La Cassazione si era già pronunciata, in due distinte occasioni (sentenze n. 26807 del 17 settembre 2020 e n. 44337 del 10-30 novembre 2021), nel senso di assimilare le criptovalute ai prodotti finanziari.
Nelle precedenti sentenze, tuttavia, l’assimilazione era stata effettuata in considerazione delle modalità di pubblicizzazione dell’offerta verso il pubblico: le norme in materia di prodotti finanziari erano state ritenute applicabili in presenza di una vera proposta di investimento o comunque laddove le modalità di offerta fossero tali da ingenerare un’aspettativa di rendimento finanziario nei potenziali acquirenti.
Con l’ultima pronuncia, invece, la Cassazione – pur confondendo erroneamente la nozione di “strumento finanziario” e di “prodotto finanziario”, attribuendo alla prima le caratteristiche tipologiche della seconda – appare per certi versi affermare un’equiparazione di principio tra criptovalute e prodotti finanziari, anche a prescindere dalle modalità di pubblicizzazione adottate dall’offerente.
La Cassazione sembra inoltre attribuire particolare rilievo all’elemento soggettivo rappresentato dall’aspettativa di rendimento dell’investitore, piuttosto che all’elemento oggettivo costituito dalla causa (finanziaria o meno) dell’operazione.
Infine, la sentenza pare estendere la nozione di prodotto finanziario anche a delle cripto-attività – quali gli utility token – che si ritenevano non riconducibili a tale categoria, almeno secondo l’interpretazione più diffusa.
Aspetti critici della decisione della Cassazione
Tralasciando le questioni concernenti l’erronea sovrapposizione tra le categorie di strumenti e prodotti finanziari, la sentenza della Cassazione penale si discosta sotto diversi profili dagli orientamenti seguiti sin qui dalla giurisprudenza della Cassazione civile e dalla CONSOB in ordine alla nozione di prodotto finanziario.
Non è infatti l’elemento soggettivo dell’investitore (vale a dire, il motivo per il quale acquista) a determinare la qualifica di un bene in termini di prodotto finanziario: occorre verificare, in proposito, se l’operazione abbia di per sé una causa di natura finanziaria, secondo quanto affermato dalla Cassazione civile in un’importante sentenza (n. 2736/2013), citata più volte anche dalla CONSOB.
Le mere prospettive di apprezzamento di un bene non sono sufficienti, a loro volta, perché si determini la qualificazione di un bene come prodotto finanziario. È necessario, al riguardo, che l’atteso incremento di valore (e il relativo rischio) costituisca un elemento intrinseco all’operazione stessa.
La qualificazione come prodotto finanziario può essere inoltre esclusa laddove la finalità di godimento o di disposizione del bene sia prevalente rispetto a quella finanziaria, ovvero quando vi sia un apporto di prestazioni da parte dell’investitore diverse da quella di dare una somma di denaro.
Le ICO in Italia: fine di un’epoca?
La sentenza della Cassazione segna probabilmente la fine delle ICO volte a finanziare lo sviluppo di piattaforme blockchain attraverso l’offerta in Italia di cripto-attività legate alla piattaforma stessa.
Nel caso esaminato dalla Corte, l’offerente aveva di fatto effettuato un’attività di raccolta di capitali finalizzata alla creazione della propria piattaforma, attraverso una sorta di crowdfunding, senza ricorrere all’emissione di strumenti finanziari (di equity o di debito). Tale circostanza, più di ogni altra considerazione, ha probabilmente indotto la Cassazione a ritenere, ancorché in modo non lineare, che fossero applicabili all’offerta le norme in materia di intermediazione finanziaria.
La stagione delle ICO di questo tipo può tuttavia dirsi in buona parte conclusa e l’industria delle cripto-attività ha ormai sviluppato dei prodotti più elaborati e articolati. Le piattaforme di negoziazione e offerta di cripto-attività sono ormai soggette a un apposito regime di registrazione e supervisione da parte dell’OAM, mentre è ormai in corso di approvazione a livello europeo il Regolamento MiCA, che disciplinerà in modo puntuale gli obblighi regolamentari degli operatori del settore.
La domanda, pertanto, è se la sentenza della Cassazione non possa avere delle ripercussioni per il settore che vadano oltre la fattispecie concreta esaminata nella decisione.
Quali sono le implicazioni per gli operatori?
L’approccio generalizzante seguito dalla Cassazione non tiene conto delle molteplici tipologie di cripto-attività presenti sul mercato e della necessità di verificare, caso per caso, se ricorrono tutti gli elementi per qualificare una cripto-attività quale prodotto finanziario (o per escludere detta qualifica), sulla base delle indicazioni fornite in proposito dalla Cassazione civile e degli orientamenti CONSOB in materia.
Tali indicazioni e orientamenti continuano ad essere validi e rilevanti, non essendo stati superati dall’ultima sentenza della Cassazione, che appare essere succintamente motivata e probabilmente dettata anche dalle caratteristiche specifiche della vicenda in concreto esaminata.
Resta sicuramente confermata la necessità di porre particolare attenzione alle modalità di commercializzazione e offerta delle cripto-attività, secondo quanto già in precedenza affermato dalla Cassazione, nonché la particolare delicatezza legata alla previsione di eventuali meccanismi di rendita passiva che non siano il risultato di un concreto agire dell’investitore.
Il rischio è che, sulla scorta del principio generale affermato dalla Cassazione, le autorità giudiziarie omettano di svolgere i necessari distinguo e riconducano acriticamente tutte le cripto-attività alla comune nozione di prodotti finanziari.
I paradossi del dibattito attuale alla luce del Regolamento MiCA
Guardando in prospettiva, il dibattito sulla qualificazione delle criptovalute come prodotti finanziari appare per certi versi paradossale, in un contesto in cui le norme italiane in materia di prodotti finanziari dovranno essere riviste in caso di offerta di cripto-attività, sulla base dei contenuti del Regolamento MiCA.
Il Regolamento MiCA, infatti, non prevede alcun obbligo di prospetto per l’offerta di cripto-attività, né impone il rispetto delle medesime disposizioni applicabile in relazione all’offerta fuori sede o mediante tecniche di comunicazione a distanza di prodotti finanziari.
La tematica esaminata dalla Corte è già dunque destinata a diventare anacronistica in tempi relativamente ristretti e le sentenze della giurisprudenza sul punto saranno presto superate dall’evoluzione legislativa in materia.
D’altra parte la stessa CONSOB aveva anticipato, nel 2019, l’intenzione di assoggettare le cripto-attività ad un regime ad hoc, sottraendole dall’applicazione delle norme in materia di prodotti finanziari.
È legittimo chiedersi, pertanto, se non sia più logico evitare questa inutile incertezza regolamentare, attraverso un intervento interpretativo da parte delle autorità competenti che contribuisca a guidare gli orientamenti giurisprudenziali in attesa che tale riforma sia attuata con l’entrata in vigore del Regolamento MiCA.