Violenza di genere nel metaverso: prospettive e applicabilità del diritto penale

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Il metaverso può rappresentare la nuova frontiera delle relazioni personali. Offre la possibilità, infatti, di vivere in una dimensione virtuale immersiva in cui l’utente, attraverso un avatar, conduce le proprie attività quotidiane: compra e vende prodotti e servizi, lavora, interagisce, partecipa ad attività ed eventi.

Si tratta, però, di un mondo ancora inesplorato: gli utenti attivi ad oggi su Decentraland – uno dei metaversi più conosciuti – arriva appena a 8000 (secondo quanto dichiarato dal suo direttore creativo Sam Hamilton). Tuttavia, per la sua potenza rivoluzionaria e per la coerenza con la trasformazione digitale in atto da anni, può rappresentare un futuro plausibile.

Come fare però a regolamentare una realtà così innovativa, complessa e decentralizzata, in modo da garantire massima tutela ai suoi utilizzatori?

L’origine di Horizon e il primo caso di denuncia per violenza sessuale

In suo discorso manifesto pronunciato in occasione del Facebook Communities Summit del 2017, Mark Zuckerberg ha attribuito i capovolgimenti sociopolitici del nostro tempo alla progressiva disintegrazione delle comunità umane e ha sostenuto che Facebook avrebbe risolto il problema, creando una comunità virtuale globale in sostituzione a quelle fisiche.

L’idea di usare l’intelligenza artificiale per sviluppare un progetto di ingegneria sociale su scala mondiale ha portato nell’ottobre 2021 alla realizzazione del Metaverso: un mondo simulato che combina social media, realtà aumentata, realtà virtuale e tecnologia blockchain per creare uno spazio online interconnesso che imita le esperienze vivibili nel mondo reale.

Circa due mesi dopo, Meta (nuova denominazione assunta da Facebook) ha reso pubblica una piattaforma multigiocatore, Horizon Worlds, a cui è possibile accedere tramite il proprio account Facebook. L’utente, dotato di un apposito visore per la realtà virtuale, crea un suo avatar che gli consente di interagire liberamente con gli altri.

Nonostante le raccomandazioni di Meta contro bullismo e abusi, le relazioni tra gli utenti sono degenerate al punto che nel giro di pochi mesi si è registrata una prima denuncia per molestie sessuali. Una ricercatrice di nome Nina Jane Patel ha sostenuto (in un post pubblicato su Medium.com) che il suo avatar avrebbe ricevuto insulti, ingiurie e apprezzamenti osceni, che sarebbero rapidamente sfociati in una vera e propria violenza di gruppo commessa da altri avatar.

Nel suo post, la Patel ha scritto, tra le altre cose, che “la realtà virtuale è progettata in modo che mente e corpo non percepiscano il differenziare fra esperienza digitale e quella reale. E infatti la mia risposta fisiologica e psicologica è stata come se quella brutta cosa fosse accaduta nella realtà. «L’attacco, un minuto dopo essere entrata in Horizon, mi ha colto di sorpresa, terrorizzata, paralizzata. Non sono nemmeno riuscita a mettere in atto la barriera di sicurezza. È stato un vero incubo».

Dopo un iniziale tentativo di minimizzare l’accaduto, Meta ha ritenuto di prevenire nuovi episodi di molestie e violenze introducendo una misura di distanziamento sociale chiamata “Personal Boundary” (confini personali). Su Horizon Worlds e Horizon Venus, i mondi dove sono ospitati spettacoli e concerti, gli avatar dovranno ora rispettare la distanza tassativa di un metro l’uno dall’altro, pena la sospensione dell’utente indisciplinato.

Il tema dell’applicabilità del diritto penale

Com’era prevedibile, il caso ha fatto parecchio discutere e ha sollevato a un interrogativo, che a sua volta ne presuppone molti altri: sono ipotizzabili conseguenze penali nei confronti dei molestatori virtuali? E, se del caso, quale potrebbe essere la risposta del nostro ordinamento penale?

Prim’ancora, però, è necessario chiedersi se l’azione compiuta da un avatar possa essere rimproverata al suo corrispondente fisico: e cioè se l’avatar costituisca un’espressione dell’identità personale.

Il concetto di identità personale

Nel nostro ordinamento esiste un diritto all’identità personale, strettamente correlato alla garanzia costituzionale del pieno sviluppo della personalità, sia in forma individuale sia nella via associata.

Il concetto di identità personale è stato elaborato dalla giurisprudenza a partire dagli anni ’70. Nel 1985, la Cassazione civile (Sez. I, 22.6.1985, n. 3769) ha stabilito che: “nell’ordinamento italiano sussiste, in quanto riconducibile all’art. 2 Cost. e deducibile, per analogia, della disciplina prevista per il diritto al nome, il diritto all’identità personale, quale interesse giuridicamente meritevole di tutela a non veder travisato o alterato all’esterno il proprio patrimonio intellettuale, politico, religioso, ideologico, professionale, ecc.”.

La nozione d’identità personale appare, dunque, strettamente legata ai concetti di comunità e società: contesti in cui ciascuno di noi ha diritto al riconoscimento della sua unicità.

Identità personale nel metaverso

Il metaverso, a pensarci bene, è un contesto sociale in cui la corporeità è sostituita dall’avatar: l’identità individuale si esprime, cioè, nell’identità digitale che consente all’individuo di partecipare alla vita sociale in rete. In quest’ottica, come ha sostenuto parte della dottrina italiana, l’avatar potrebbe rappresentare una nuova forma di espressione dell’identità personale.

Ma questa correlazione tra avatar e identità personale può bastare per attribuire alla persona fisica la responsabilità giuridica delle azioni compiute dal corrispettivo elettronico?

Secondo un interessante punto di vista, la risposta sarebbe affermativa. Il nostro ordinamento – si osserva – avrebbe ormai superato il concetto di responsabilità personale quale responsabilità della persona fisica: ne darebbe prova l’introduzione del d.lgs. 231/01 in materia di responsabilità da reato degli enti.

Quest’analogia tra persona giuridica e avatar sorvola, tuttavia, sul fatto che la responsabilità da reato degli enti non ha carattere strettamente penale ma rappresenta una forma di responsabilità mista, in cui coesistono profili amministrativi e profili più propriamente penali.

Inoltre, la responsabilità da reato dell’ente scaturisce da una colpa d’organizzazione a base normativa, che consiste nella mancata predisposizione di protocolli preventivi diretti a impedire la commissione dei reati. Le azioni violente dell’avatar, al contrario, sono volute dalla persona fisica e non derivano di certo da un suo comportamento negligente.

Il concetto di materialità

In ogni caso, il punto decisivo rimane un altro: la compatibilità del metaverso con il principio di materialità del diritto penale.

Come noto, negli ordinamenti di ispirazione liberal-democratica, non può esservi reato se la volontà criminosa non si materializza in un comportamento esterno. Il nostro è un sistema penale oggettivo: presuppone un comportamento umano che si estrinsechi nel mondo esteriore e sia suscettibile di percezione sensoria. Si è obiettato che “il mondo esteriore” non sarebbe soltanto quello reale ma “ma qualunque mondo nel quale il soggetto reale possa esercitare il proprio diritto all’identità personale e possa esplicare la propria identità relazionale e sociale”.

Si tratta, però, di una pericolosa fuga in avanti incline a dilatare all’eccesso l’area di applicazione del diritto penale, la cui smaterializzazione mal si concilia con l’art. 25, II comma, Cost. che, parlando di “fatto commesso” fa riferimento a una modificazione materiale della realtà.

La necessità di contenere il diritto penale all’interno del suo alveo materiale, deve allora portarci a concludere che con il proprio avatar, nel metaverso, si possa compiere qualunque azione, senza alcuna reale ripercussione giuridica?

Il diritto penale ha quindi possibilità di applicazione nel metaverso?

Benché la Cassazione abbia ritenuto plausibile la violenza sessuale senza contatto fisico (è il caso di chi costringa taluno a inviare immagini di sé in pose hard dietro minaccia di pubblicare sui social le foto e i video già ricevuti: Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 17509/2018; Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 25266/2020), per il momento deve escludersi che l’aggressione sessualmente connotata di un avatar integri gli estremi del reato di cui all’art. 609 bis c.p. L’atto sessuale, infatti, non avviene nel mondo reale e quindi sfugge alla presa del diritto penale.

È, tuttavia, possibile ipotizzare la sussistenza di quei reati in cui giocano un ruolo decisivo le emozioni e le percezioni della vittima; ad esempio, gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p. (c.d. stalking), il cui bene giuridico è rappresentato dall’integrità psichica della persona offesa.

Come noto, la norma incrimina chi, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero in modo da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Immaginiamo, ora, che tra le abitudini di vita della vittima vi sia un’assidua frequentazione del metaverso (luogo in cui è già possibile fare acquisti o frequentare corsi e lezioni): se, a causa di minacce e molestie, la persona offesa fosse costretta a rinunciare alla sua abituale interazione con la società virtuale, se la persecuzione ai danni dell’avatar procurasse un grave stato d’ansia al suo corrispettivo fisico, allora potrebbe legittimamente configurarsi il reato di stalking. In definitiva, se le molestie ai danni dell’avatar scavalcassero il confine tra virtualità e realtà e compromettessero la libertà morale di una persona reale costringendola a rinunciare a manifestare la sua identità personale in quel contesto, allora scatterebbe il reato di atti persecutori, esattamente com’è configurato oggi.

Le ipotesi di un futuro sviluppo del diritto penale nel metaverso

Guardando al prossimo futuro, non è inverosimile ipotizzare il tentativo di creare una sorta di giurisdizione elettronica globale che individui nell’avatar anziché nella persona fisica il suo centro d’interessi.

L’idea di un sistema giuridico globale desta, tuttavia, forti perplessità: da un lato, si fonda sul presupposto di una corrispondenza biunivoca tra persona fisica e avatar quando, in realtà, gli avatar di ciascun individuo sono potenzialmente illimitati (tanti quanti sono o saranno i metaversi); dall’altro, non sembra che le odierne istituzioni sovranazionali abbiano la forza di elaborare visioni globali di comunità pari a quelle proposte dai giganti della rete. Questo nuovo habitat informatico si svilupperà, dunque, al di là del raggio d’azione dei poteri tradizionali: sarà vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.

Fonti: D. Ingarrica, Metaverso criminale; A. Continiello, Le nuove frontiere del diritto penale nel Metaverso.

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